Torino, considerata da molti come
la “Houston
d’Italia e d’Europa”, è nota per la sua alta concentrazione di aziende
di eccellenza che operano nel settore
aerospaziale. Aziende dedite all’innovazione
dal punto di vista dei materiali e che si pongono come obiettivo quello di
far avanzare le conoscenze scientifiche
in un ambiente estremo come lo spazio.
Tra queste aziende, un posto di rilievo viene occupato dalla SMAT (Società Metropolitana Acque
Torino S.p.a.) e dal suo Centro Ricerche.
È una calda mattinata di metà
settembre quando varchiamo il portone del Centro
Ricerche SMAT, immerso nel verde e a pochi passi dal fiume Po. Ad
accoglierci Marisa Di Lauro,
Responsabile delle Relazioni Esterne dell’azienda, con la quale abbiamo
organizzato l’incontro e la successiva visita al centro.
Incontriamo Lorenza Meucci, Dirigente laboratori, ricerche e controlli del
Centro Ricerche, in una sala riunioni nel moderno fabbricato e inizia subito
una lunga intervista che unirà l’elemento di cui siamo fatti allo spazio.
(Lorenza
Meucci: Dirigente laboratori, ricerche e controlli del Centro Ricerche SMAT di
Torino – photo Emmanuele Macaluso)
L’Ing. Meucci ci racconta che il
Centro Ricerche è nato nel 2008, occupa circa 70 persone ed è stato il primo di
questo genere nato in Italia.
Attualmente è impegnato in 42 progetti e collabora con partner pubblici,
privati e università.
ACQUA SMAT NELLO SPAZIO
Il primo progetto del quale
parliamo è quello che ha visto la SMAT impegnata nella produzione di acqua
destinata alla ISS (International
Space Station - Stazione
Spaziale Internazionale ndr).
Il progetto è iniziato nel 2003,
e prevedeva due tipologie di acque, una per i cosmonauti russi e una per gli astronauti
americani. Le acque avevano requisiti molto diversi ma una caratteristica
comune: quella di mantenere stabilità microbiologica per almeno 6 mesi.
Una sfida che ha necessitato di 3
anni di ricerche e che è stata vinta da SMAT. C’è da dire che per raggiungere
questo risultato, durante la fase di ricerca, si è compreso che
l’inalterabilità delle caratteristiche del fluido non era solo dovuto alle
caratteristiche dell’acqua, ma molto dipendeva dai contenitori che entravano in
contatto con essa. Questo ha quindi innalzato l’asticella della sfida da parte
di tutti gli enti coinvolti in questo progetto.
Nel 2006, dopo 3 anni di messa a
punto dei processi produttivi, si ottiene l’autorizzazione finale della Nasa.
Il 9 marzo del 2008 quindi, dopo
5 anni dall’inizio del progetto, il primo carico di acqua parte alla vota della
ISS nell’ambito della Missione Jules
Verne. Successivamente ci sarebbero stati altri 3 lanci, nel 2012, 2013 e
2014 con la consegna totale di 22.700 litri di acqua e 4 carichi a bordo di
vettori spaziali.
Questo successo unito al continuo
spostamento dei limiti esplorativi e scientifici, ha creato una nuova sfida in
vista delle future missioni di lunga durata. Nel 2014 è stato avviato lo studio
di un progetto definito “Acqua per Marte”, nel quale SMAT è impegnata e che
prevede il raggiungimento della soglia dei tre anni di stabilità dell’acqua dal
punto di vista microbiologico. Un’ulteriore barriera da abbattere.
BIOWYSE (Biocontamination
Integrated cOntrol of Wet sYstem for Space Exploration)
L’innalzamento delle soglie
temporali per lo stoccaggio e l’utilizzo dell’acqua nello spazio vede la
nascita di un innovativo progetto europeo chiamato BIOWYSE, che vede il Centro Ricerche SMAT tra i protagonisti.
Per raccontarci di BIOWYSE ci
raggiunge Francesca Bersani, una
giovane e brillante ricercatrice, che sulle immagini di un video (https://www.youtube.com/watch?v=8hc_hHqoHRw)
ci illustra gli obiettivi e le caratteristiche del progetto.
Finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del bando Horizon 2020, programma triennale
avviato nel 2016, BIOWYSE rappresenta lo sviluppo di un sistema integrato per
il controllo rapido della biocontaminazione di acque destinate al consumo umano
e di superfici umide (infatti nello spazio si riutilizza anche la condensa), da
utilizzare nel circuito di riuso dell’acqua sulla ISS, per missioni esplorative
a lungo raggio e sulla terra per situazioni di criticità.
Si tratta di un macchinario
grande come un capiente frigo da pic nic,
dal peso di circa 50 Kg, che verrà installato a bordo della ISS in modo
assolutamente compatibile e integrato con i sistemi idrici di bordo. Il sistema
potrà fare, in modo assolutamente automatico, le analisi dell’acqua presente in
un suo serbatoio rivestito di argento. Nel caso l’acqua non raggiungesse i
rigidi standard per l’uso umano, provvederà attraverso un ciclo di
decontaminazione ad adattarla ai requisiti richiesti. Successivamente, sarà
ricontrollata e, qualora non fosse ancora “pura”, verrà sottoposta ad un ulteriore
ciclo.
Vediamo il processo nel dettaglio
e nelle sue 4 fasi:
- Fase 1: “Prevenzione” – l’acqua
entra in una tanica di stoccaggio rivestita in argento con potere
antimicrobiotico.
- Fase 2: “Monitoraggio” – Un
campione d’acqua passa dalla tanica di stoccaggio ad un campionatore automatico
per analisi della bioluminescenza.
- Fase 3: “Eventuale
decontaminazione” – A svolgere l’azione di decontaminazione troviamo 2 lampade
UV-LED. Queste, in base al livello di contaminazione operano in simultanea o
singolarmente.
- fase 4: “Controllo” – L’acqua
viene sottoposta ad un ulteriore sistema di controllo collegato ad
un’interfaccia operativa. Al termine di questa fase, in base ai risultati
l’acqua sarà pronta all’utilizzo o reimmessa nel sistema di contaminazione.
La complessità e l’importanza di
questo progetto è comprensibile anche attraverso la lunga lista dei partner che
sono coinvolti nel consorzio, e che oltre alla SMAT vede l’impegno di Thales Alenia Space Italia, IRSA-CNR, Università degli Studi di Firenze, Fondation Européenne de la Science (Francia), GL-Biocontrol (Francia), AquiSense
Technologies (UK), Liewenthal
Electronics (Estonia), A-ETC
(Repubblica Ceca).
(Francesca
Bersani: Ricercatrice del Centro Ricerche SMAT di Torino – photo Emmanuele
Macaluso)
BIOWYSE, oltre a rappresentare
uno strumento essenziale per le future esplorazioni e missioni a lungo raggio, ci
aiuta a comprendere quanto la ricerca spaziale possa avere ricadute positive e
immediate anche sulla Terra. Uno degli ambiti di ricerca infatti, vedrà
l’utilizzo di questo macchinario di analisi e bonifica dell’acqua negli
ambienti di crisi. Si immagini l’utilità di uno strumento con queste
caratteristiche in ambienti dove a causa di disastri naturali non vi sia un
accesso diretto all’acqua potabile. Senza la presenza di tecnici specializzati
o biologi, il macchinario sarebbe in grado di analizzare e operare fino alla
decontaminazione dell’acqua. Questo è un fattore che merita il massimo apporto divulgativo affinché si metta in
evidenza come la corsa allo spazio possa aiutare anche noi terrestri sul nostro
pianeta.
PERSEO (PErsonal Radiation
Shielding for intERplanetary missiOns)
Il Centro Ricerche SMAT è
attualmente impegnato in un altro progetto in ambito aerospaziale denominato PERSEO.
Finanziato dall’ASI (Agenzia Spaziale Italiana), e
coordinato dall’Università di Pavia,
l’obiettivo del progetto è quello di sviluppare un sistema di radioprotezione
personale da indossare per mitigare gli effetti della radiazione cosmica sugli
astronauti.
Per immaginare questo dispositivo
si deve pensare ad una sorta di “giubba” come quella utilizzata dagli
artificieri. Questo giubbotto ergonomico, contiene al suo interno delle sacche
(in materiale polimerico inerte) riempite d’acqua e collegate tra loro da un
circuito di tubi e valvole. Mediante il riempimento delle sacche, si vuole
utilizzare l’acqua come materiale isolante dalle radiazioni cosmiche. Anche in
questo caso, come BIOWYSE, il sistema deve essere compatibile con il sistema
idrico a bordo della ISS.
Il prototipo è stato consegnato
per l’ispezione finale presso lo Space
Center di Houston il 5 luglio 2017 ed è partito verso la ISS lo scorso 14
agosto alle ore 18:31. Il giubbotto era stivato a bordo di una capsula cargo Dragon della SpaceX di Elon Musk. Ad
attenderla, dopo 2 giorni di rincorsa attorno al pianeta, il 16 agosto,
l’astronauta italiano Paolo Nespoli, che nell’ambito della “sua” MISSIONE VITA testerà PERSEO e manderà
sulla Terra i risultati del test.
La costruzione di un giubbino
contenente delle sacche d’acqua potrebbe portare chi legge a pensare che il suo
sviluppo e la sua produzione possano rappresentare un’impresa di poco conto.
Come spesso capita, anche in questo caso sono i numeri a dare l’esatta visione
delle difficoltà dell’invio di un progetto in un ambiente come lo spazio.
PERSEO doveva rispondere a 116 requisiti, 51 dei quali erano a carico della
SMAT.
L’intervista termina con una
visita alle sale di monitoraggio e di ricerca, e ci lascia l’esatta percezione
di come l’eccellenza delle aziende si rispecchi non solo attraverso le
attrezzature, ma anche attraverso le caratteristiche umane e tecniche che la
compongono.
Emmanuele Macaluso