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lunedì 25 settembre 2017

SMAT – VISITA AL CENTRO RICERCHE DI TORINO – “ACQUA ITALIANA DALLA TERRA ALLO SPAZIO”



Torino, considerata da molti come la “Houston d’Italia e d’Europa”, è nota per la sua alta concentrazione di aziende di eccellenza che operano nel settore aerospaziale. Aziende dedite all’innovazione dal punto di vista dei materiali e che si pongono come obiettivo quello di far avanzare le conoscenze scientifiche in un ambiente estremo come lo spazio. Tra queste aziende, un posto di rilievo viene occupato dalla SMAT (Società Metropolitana Acque Torino S.p.a.) e dal suo Centro Ricerche.
È una calda mattinata di metà settembre quando varchiamo il portone del Centro Ricerche SMAT, immerso nel verde e a pochi passi dal fiume Po. Ad accoglierci Marisa Di Lauro, Responsabile delle Relazioni Esterne dell’azienda, con la quale abbiamo organizzato l’incontro e la successiva visita al centro.
Incontriamo Lorenza Meucci, Dirigente laboratori, ricerche e controlli del Centro Ricerche, in una sala riunioni nel moderno fabbricato e inizia subito una lunga intervista che unirà l’elemento di cui siamo fatti allo spazio.
(Lorenza Meucci: Dirigente laboratori, ricerche e controlli del Centro Ricerche SMAT di Torino – photo Emmanuele Macaluso)

L’Ing. Meucci ci racconta che il Centro Ricerche è nato nel 2008, occupa circa 70 persone ed è stato il primo di questo genere nato in Italia. Attualmente è impegnato in 42 progetti e collabora con partner pubblici, privati e università.

ACQUA SMAT NELLO SPAZIO
Il primo progetto del quale parliamo è quello che ha visto la SMAT impegnata nella produzione di acqua destinata alla ISS (International Space Station - Stazione Spaziale Internazionale ndr).
Il progetto è iniziato nel 2003, e prevedeva due tipologie di acque, una per i cosmonauti russi e una per gli astronauti americani. Le acque avevano requisiti molto diversi ma una caratteristica comune: quella di mantenere stabilità microbiologica per almeno 6 mesi.
Una sfida che ha necessitato di 3 anni di ricerche e che è stata vinta da SMAT. C’è da dire che per raggiungere questo risultato, durante la fase di ricerca, si è compreso che l’inalterabilità delle caratteristiche del fluido non era solo dovuto alle caratteristiche dell’acqua, ma molto dipendeva dai contenitori che entravano in contatto con essa. Questo ha quindi innalzato l’asticella della sfida da parte di tutti gli enti coinvolti in questo progetto.
Nel 2006, dopo 3 anni di messa a punto dei processi produttivi, si ottiene l’autorizzazione finale della Nasa.
Il 9 marzo del 2008 quindi, dopo 5 anni dall’inizio del progetto, il primo carico di acqua parte alla vota della ISS nell’ambito della Missione Jules Verne. Successivamente ci sarebbero stati altri 3 lanci, nel 2012, 2013 e 2014 con la consegna totale di 22.700 litri di acqua e 4 carichi a bordo di vettori spaziali.
Questo successo unito al continuo spostamento dei limiti esplorativi e scientifici, ha creato una nuova sfida in vista delle future missioni di lunga durata. Nel 2014 è stato avviato lo studio di un progetto definito “Acqua per Marte”, nel quale SMAT è impegnata e che prevede il raggiungimento della soglia dei tre anni di stabilità dell’acqua dal punto di vista microbiologico. Un’ulteriore barriera da abbattere.

BIOWYSE (Biocontamination Integrated cOntrol of Wet sYstem for Space Exploration)
L’innalzamento delle soglie temporali per lo stoccaggio e l’utilizzo dell’acqua nello spazio vede la nascita di un innovativo progetto europeo chiamato BIOWYSE, che vede il Centro Ricerche SMAT tra i protagonisti.
Per raccontarci di BIOWYSE ci raggiunge Francesca Bersani, una giovane e brillante ricercatrice, che sulle immagini di un video (https://www.youtube.com/watch?v=8hc_hHqoHRw) ci illustra gli obiettivi e le caratteristiche del progetto.
Finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del bando Horizon 2020, programma triennale avviato nel 2016, BIOWYSE rappresenta lo sviluppo di un sistema integrato per il controllo rapido della biocontaminazione di acque destinate al consumo umano e di superfici umide (infatti nello spazio si riutilizza anche la condensa), da utilizzare nel circuito di riuso dell’acqua sulla ISS, per missioni esplorative a lungo raggio e sulla terra per situazioni di criticità.
Si tratta di un macchinario grande come un capiente frigo da pic nic, dal peso di circa 50 Kg, che verrà installato a bordo della ISS in modo assolutamente compatibile e integrato con i sistemi idrici di bordo. Il sistema potrà fare, in modo assolutamente automatico, le analisi dell’acqua presente in un suo serbatoio rivestito di argento. Nel caso l’acqua non raggiungesse i rigidi standard per l’uso umano, provvederà attraverso un ciclo di decontaminazione ad adattarla ai requisiti richiesti. Successivamente, sarà ricontrollata e, qualora non fosse ancora “pura”, verrà sottoposta ad un ulteriore ciclo.
Vediamo il processo nel dettaglio e nelle sue 4 fasi:
- Fase 1: “Prevenzione” – l’acqua entra in una tanica di stoccaggio rivestita in argento con potere antimicrobiotico.
- Fase 2: “Monitoraggio” – Un campione d’acqua passa dalla tanica di stoccaggio ad un campionatore automatico per analisi della bioluminescenza.
- Fase 3: “Eventuale decontaminazione” – A svolgere l’azione di decontaminazione troviamo 2 lampade UV-LED. Queste, in base al livello di contaminazione operano in simultanea o singolarmente.
- fase 4: “Controllo” – L’acqua viene sottoposta ad un ulteriore sistema di controllo collegato ad un’interfaccia operativa. Al termine di questa fase, in base ai risultati l’acqua sarà pronta all’utilizzo o reimmessa nel sistema di contaminazione.
La complessità e l’importanza di questo progetto è comprensibile anche attraverso la lunga lista dei partner che sono coinvolti nel consorzio, e che oltre alla SMAT vede l’impegno di Thales Alenia Space Italia, IRSA-CNR, Università degli Studi di Firenze, Fondation Européenne de la Science (Francia), GL-Biocontrol (Francia), AquiSense Technologies (UK), Liewenthal Electronics (Estonia), A-ETC (Repubblica Ceca).
(Francesca Bersani: Ricercatrice del Centro Ricerche SMAT di Torino – photo Emmanuele Macaluso)

BIOWYSE, oltre a rappresentare uno strumento essenziale per le future esplorazioni e missioni a lungo raggio, ci aiuta a comprendere quanto la ricerca spaziale possa avere ricadute positive e immediate anche sulla Terra. Uno degli ambiti di ricerca infatti, vedrà l’utilizzo di questo macchinario di analisi e bonifica dell’acqua negli ambienti di crisi. Si immagini l’utilità di uno strumento con queste caratteristiche in ambienti dove a causa di disastri naturali non vi sia un accesso diretto all’acqua potabile. Senza la presenza di tecnici specializzati o biologi, il macchinario sarebbe in grado di analizzare e operare fino alla decontaminazione dell’acqua. Questo è un fattore che merita il massimo apporto divulgativo affinché si metta in evidenza come la corsa allo spazio possa aiutare anche noi terrestri sul nostro pianeta.

PERSEO (PErsonal Radiation Shielding for intERplanetary missiOns)
Il Centro Ricerche SMAT è attualmente impegnato in un altro progetto in ambito aerospaziale denominato PERSEO. Finanziato dall’ASI (Agenzia Spaziale Italiana), e coordinato dall’Università di Pavia, l’obiettivo del progetto è quello di sviluppare un sistema di radioprotezione personale da indossare per mitigare gli effetti della radiazione cosmica sugli astronauti.
Per immaginare questo dispositivo si deve pensare ad una sorta di “giubba” come quella utilizzata dagli artificieri. Questo giubbotto ergonomico, contiene al suo interno delle sacche (in materiale polimerico inerte) riempite d’acqua e collegate tra loro da un circuito di tubi e valvole. Mediante il riempimento delle sacche, si vuole utilizzare l’acqua come materiale isolante dalle radiazioni cosmiche. Anche in questo caso, come BIOWYSE, il sistema deve essere compatibile con il sistema idrico a bordo della ISS.
Il prototipo è stato consegnato per l’ispezione finale presso lo Space Center di Houston il 5 luglio 2017 ed è partito verso la ISS lo scorso 14 agosto alle ore 18:31. Il giubbotto era stivato a bordo di una capsula cargo Dragon della SpaceX di Elon Musk. Ad attenderla, dopo 2 giorni di rincorsa attorno al pianeta, il 16 agosto, l’astronauta italiano Paolo Nespoli, che nell’ambito della “sua” MISSIONE VITA testerà PERSEO e manderà sulla Terra i risultati del test.
La costruzione di un giubbino contenente delle sacche d’acqua potrebbe portare chi legge a pensare che il suo sviluppo e la sua produzione possano rappresentare un’impresa di poco conto. Come spesso capita, anche in questo caso sono i numeri a dare l’esatta visione delle difficoltà dell’invio di un progetto in un ambiente come lo spazio. PERSEO doveva rispondere a 116 requisiti, 51 dei quali erano a carico della SMAT.

L’intervista termina con una visita alle sale di monitoraggio e di ricerca, e ci lascia l’esatta percezione di come l’eccellenza delle aziende si rispecchi non solo attraverso le attrezzature, ma anche attraverso le caratteristiche umane e tecniche che la compongono.

Emmanuele Macaluso

martedì 5 settembre 2017

VOYAGER 1 E 2: 40 ANNI NELLO SPAZIO A SERVIZIO DELLA SCIENZA



(Un'immagine della sonda Voyager - Crediti foto:Nasa) 

Era il 1977 quando il Programma Voyager della Nasa portava le due sonde gemelle sulle rampe di lancio per un viaggio spaziale che dura ancora oggi. La prima ad essere lanciata a bordo di un razzo Titan III fu la sonda Voyager 2. Era infatti il 20 agosto 1977, quando lasciò per l’ultima volta la Terra da Cape Canaveral, con l’obiettivo di avvicinarsi ai pianeti Giove e  Saturno.
Qualche giorno dopo, il 5 settembre 1977, fu la volta di Voyager 1, stivata a bordo di un Titan IIIE, che dalla stessa base della gemella partì verso i due pianeti giganti, attraverso una traiettoria che avrebbe superato quella della Voyager 2.
La missione si rivelò un successo dal punto di vista scientifico e tecnico, con dati e immagini che hanno permesso di conoscere in modo approfondito molti aspetti dei 2 pianeti, delle loro lune e degli anelli.

Le Voyager attorno Giove
La prima ad avvicinarsi a Giove fu la sonda Voyager 1 che nel gennaio 1979 iniziò a fotografarlo. Il passaggio del pianeta avvenne il 5 marzo dello stesso anno. La sonda continuò a scattare fino al mese di aprile. Voyager 2 invece, sorvolò il pianeta gigante il 9 luglio dello stesso anno.

Saturno
Il secondo pianeta ad essere studiato dalle sonde fu Saturno. Il 12 novembre 1980 Voyager 1 passò nel punto più vicino a Saturno ad una distanza di soli 120.000 Km, seguita qualche mese dopo dalla gemella. Era infatti il 26 agosto del 1981 quando la Voyager 2 passò nel punto più vicino al pianeta.
Furono molte le scoperte che le sonde hanno portato all’attenzione della comunità scientifica internazionale, soprattutto in relazione alle lune dei due pianeti. Quello del programma Voyager fu un tale successo che continua ancora oggi. Vista la capacità di funzionamento delle sonde, si decise quindi di far proseguire le corse delle sonde verso il sistema solare esterno.

Sistema solare esterno – Urano, Nettuno e oltre
Dopo il sorvolo di Saturno da parte delle sonde, le strade di Voyager 1 e Voyager 2 si sono divise. Da questo momento la più attiva dal punto di vista esplorativo e scientifico è stata Voyager 2, inviata verso Urano e Nettuno. Il 24 gennaio 1986 ha raggiunto Urano, mentre tre anni e mezzo dopo, il 25 agosto 1989, ha raggiunto Nettuno, fornendo immagini e dati preziosi per la ricerca scientifica. Voyager 1 invece ha iniziato direttamente la sua corsa verso l’esterno del sistema solare in direzione dello spazio interstellare.

Le sonde oggi
Voyager 1 è attualmente l’oggetto costruito dall’uomo più lontano dalla Terra. Il 12 settembre del 2013 la Nasa ha reso pubblica la notizia secondo la quale, il 25 agosto del 2012, la Voyager 1 è entrata ufficialmente nello spazio interstellare, ad una distanza di circa 121 UA dal Sole.
La Voyager 2 è il terzo oggetto costruito dall’uomo più distante dalla Terra, dopo la sonda gemella Voyager 1 e la sonda Pioneer 10. Voyager 2 non supererà mai la 1, ma dovrebbe “sorpassare” Pioneer 10 intorno al 2023.
Le due sonde del programma Voyager sono in fase di rallentamento e secondo i calcoli saranno funzionanti fino al 2025. Ogni sonda è alimentata da una batteria RTG che ne permette l’attuale funzionamento seppur in modo sempre più ridotto. Tuttavia, sarà difficile che il contatto tra le sonde e la Terra duri fino alla fine della vita operativa delle due Voyager. Già l’anno prossimo, nel 2018, dovrebbe smettere di funzionare correttamente il giroscopio che permette l’allineamento dell’antenna verso la Terra.

Curiosità
A bordo delle due sonde è  stato installato il “Voyager Golden Record”, un disco registrato e placcato in oro che contiene “immagini e voci dalla Terra”. Un messaggio inserito nel caso entrasse in possesso di eventuali forme di vita intelligenti. Le istruzioni sono presenti sulla copertina del disco.
Il nome Voyager è diventato in diverse culture sinonimo di scoperta scientifica e divulgazione. In Italia ad esempio, il nome Voyager è stato scelto come titolo di una fortunata serie divulgativa in onda sui canali Rai. Nel resto del mondo sono numerose le imprese scientifiche che si svolgono sotto questo nome.

E mentre scriviamo questo articolo, Voyager 1 e Voyager 2 continuano ad allontanarsi dalla Terra, verso lo spazio interstellare e oltre.

Emmanuele Macaluso