Attilio Ferrari è
un fisico e docente universitario. Attualmente è Presidente del Consorzio Interuniversitario per la Fisica
Spaziale (CIFS), dell’Associazione
ApritiCielo del Parco Astronomico
INFINI.TO di Pino Torinese (To), Visiting Professor al Dipartimento di Astronomia e Astrofisica dell’Università di Chicago ed
Research Affiliate al M.I.T. di Boston. È
stato Direttore dell’Osservatorio Astronomico
di Torino e responsabile di progetti scientifici internazionali. Ha
presieduto il Comitato organizzatore dell’International
Year of Astronomy 2009 a Torino ed è un divulgatore scientifico.
Sono le due del pomeriggio, quando chiudendo la portiera
della mia automobile sul parcheggio di Infini.To (il planetario di Torino), mi
fermo per scattare una foto alla struttura prima di entrarvi per intervistare
il Prof. Attilio Ferrari. Ho conosciuto il professore durante un corso di
astrofisica, una delle sue tante attività di divulgazione, e in quell’occasione
ho richiesto l’incontro che sto documentando in questo articolo. Entrato nella
struttura, rimango colpito dalle gioiose “grida” che provengono dai piani
sottostanti. Alcune scolaresche stanno partecipando a dei laboratori didattici
e a quanto pare si stanno divertendo molto. Mentre mi accompagnano nell’ufficio
del direttore mi domando se i ragazzi si stiano rendendo conto di quanto stiano
imparando divertendosi, e di quanto siano fortunati a farlo in un luogo come
quello che ci sta ospitando. I miei pensieri cambiano quando entro nell’ufficio
del prof. Ferrari e mi devo concentrare sulle domande, ma ancora di più sulle
risposte che riceverò.
Il Direttore mi invita a sedermi e chiude la porta per
isolarci dalle “grida”, pur accorgendoci entrambi che è solo una scelta legata
alla comodità della registrazione audio che mi serve per scrivere l’articolo e
non per la volontà di “non essere disturbati”. Anzi, alle nostre orecchie quei
suoni sono tranquillizzanti, ci danno speranza per il futuro.
Grazie anche a questo clima, la nostra intervista inizia in
modo rilassato e informale.
D. Come e quando ha deciso di diventare un astrofisico
Ho frequentato il liceo classico
al D’Azeglio con interessi più umanistici. Ho dato la maturità nel 1960. In
quegli anni, la scienza “di moda” era la fisica nucleare. La scelta è avvenuta
all’università, quando ho incontrato il fisico cosmico Gleb Wataghin (1) che mi
ha indirizzato verso la scelta dell’astrofisica che stava ottenendo grandi
risultati con i nuovi strumenti di osservazione. Credo che sia stato proprio
quello il momento preciso che ha segnato la mia carriera, in quanto
precedentemente non avevo avuto alcun background da astrofilo.
D. Quali sono gli ambiti di studio che ha sviluppato durante la sua
carriera
Mi sono laureato con una tesi
sulla relatività generale nel 1964. Gli ambiti si sono poi evoluti e mi hanno
portato a studiare all’estero, soprattutto negli Stati Uniti d’America e in
Inghilterra. Durante la mia carriera mi sono occupato di astrofisica delle
stelle, di struttura stellare, astrofisica dei plasmi. Gli studi mi hanno
portato nel 1968 all’università di Princeton. Tra l’altro in un anno molto
importante per la fisica, perché proprio nel ’68 sono state scoperte le pulsar.
Di seguito sono partito per il M.I.T. di Boston e poi sono rientrato in Italia
dove ho continuato le mie ricerche e le mie attività.
D. Lei è Visiting Professor al Department of Astronomy and Astrophysics
dell’Università di Chicago ed è Research Affiliate al “Centro dei Plasmi di
Alta Energia” del M.I.T. di Boston. Quali sono le differenze di approccio allo
studio e alla divulgazione che ha notato tra l’Italia e gli Stati Uniti
d’America?
Fare un raffronto tra l’Italia e
gli Stati Uniti non è facile. Direi che per quanto riguarda gli studi non c’è
una grande differenza. I nostri studenti fanno bella figura quando si recano
all’estero, in termini di preparazione e conoscenze. La differenza diventa
visibile nella fase successiva, dal dottorato in poi. Questo perché il sistema
universitario americano è molto più ricco del nostro, e agli studenti vengono
messi a disposizione strumenti e risorse economiche decisamente superiori: e
questo fa una bella differenza. Si aggiunga poi che le università americane
compongono un sistema competitivo che porta l’attenzione e i finanziamenti
degli investitori pubblici e privati negli atenei. In quel contesto, il
prestigio delle università, dei suoi docenti e studenti porta benefici che
possono essere valutati anche sul lungo periodo. Qui in Italia non fa differenza,
tranne rare eccezioni, dove ti laurei, si dà attenzione al titolo raggiunto. In
America l’ateneo che ti ha rilasciato la laurea ha un peso notevole.
D. Lei è stato direttore dell’Osservatorio Astronomico di Torino, quali
sono le difficoltà e le soddisfazioni di un incarico così importante?
Quando sono diventato direttore
dell’osservatorio le condizioni erano molto diverse da quelle di oggi. A quei
tempi gli osservatori in Italia erano 12, direttamente sotto l’egida del
Ministero della Ricerca (e continue varianti del nome successivi ndr). Io seguivo
diverse attività. Le mie responsabilità spaziavano dall’aspetto amministrativo
fino a quello scientifico e di gestione delle risorse umane. A questo
proposito, molto spesso, scherzando, dico che il mio lavoro non era
all’osservatorio ma “ad un ambulatorio”. Questo perché il mio lavoro consisteva
anche nel motivare i membri del mio staff nell’andare avanti nelle ricerche e
nelle altre attività dell’osservatorio.
Nella seconda metà degli anni ’90
la situazione è cambiata e l’osservatorio è diventato più indipendente dal
punto di vista amministrativo. All’inizio degli anni 2000 è nato l’Istituto
Nazionale di Astrofisica, purtroppo con una decina di anni di ritardo rispetto
alle tempistiche auspicabili. Io ho seguito in prima persona questo grande
cambiamento, che non è stato semplice, ma ora le cose vanno decisamente meglio.
Le soddisfazioni che ho avuto da
quell’incarico sono molte. Molte delle “linee di ricerca” che ho voluto e
seguito hanno avuto successo. All’Osservatorio Astrofisico di Torino ci sono
gruppi che lavorano su campi di frontiera dalla fisica extragalattica, alla fisica
solare e all’astrometria; tutti, stanno raggiungendo risultati notevoli e hanno
un ruolo da protagonisti in vari progetti spaziali come GAIA, Solar Orbiter,
Euclid (2).
D. Attualmente presiede l’associazione ApritiCielo e il Parco
astronomico di Torino che gestisce Infini.To, il Planetario di Torino. Ci parli
di questa attività e dei suoi obiettivi.
ApritiCielo è nata da una mia idea
quando ero direttore dell’osservatorio. Sono convinto che i risultati degli
enti di ricerca debbano essere divulgati sotto il controllo scientifico degli
stessi ricercatori. Il Parco Astronomico di Torino vuole essere una “finestra”
per dimostrare al mondo i risultati della ricerca astronomica torinese e non
solo. L’inaugurazione è avvenuta nel 2007, ma l’idea è dei primi anni ’90. I
primi soldi per gli studi di fattibilità sono arrivati nel 1997 e da allora
l’avventura è partita.
D. Di solito chiedo sempre, a chi ha avuto la fortuna di vivere quel
momento, come ha vissuto lo sbarco sulla Luna dell’Apollo 11. Ci racconta la
sua esperienza?
Nel luglio del 1969 ero a
Princeton. Quella sera ero appena tornato da Washinghton dove mi ero recato insieme
alla mia famiglia. Vidi l’allunaggio attraverso lo schermo della mia
televisione in bianco e nero insieme a mia moglie e mio figlio che ai tempi
aveva un anno e mezzo (anche lui ora al M.I.T. di Boston ndr).
In quel periodo c’era grande
euforia intorno alle missioni lunari. Qualche mese prima l’Apollo 8 aveva
circumnavigato la Luna, con quella missione che ricorderemo per la prima foto
della Terra vista dal nostro satellite. Il primo allunaggio fu una cosa
eccezionale, e sebbene i media avessero messo in grande evidenza questo fatto
storico, bisogna pensare che ai tempi gli organi di stampa erano solo i
giornali, la radio e la televisione. Non esistevano il web e la tecnologia alla
quale siamo ora abituati, e quindi non si era sottoposti all’odierno
bombardamento mediatico.
Ai tempi dello sbarco avevo 28
anni, e l’ho vissuto con l’entusiasmo tipico di quell’età: l’idea comune era
che ormai “non ci poteva fermare più nessuno” e che tutto sarebbe stato
possibile, andare su altri pianeti e conquistare le stelle.
Una delle cose che ricordo con
emozione è la telecronaca condotta da Walter Cronkite della CBS, che nel
momento dell’allunaggio ripeteva eccitato la frase “Oh boy! Oh boy!”, una
tipica espressione americana che potrebbe essere paragonata al nostro
“accidenti!”.
D. Quali sono le prossime frontiere dell’astrofisica e in quale modo
possono ricadere sulla società.
La fisica fa da “motivatore” alle
altre scienze e ne è alla base. Si applica quindi anche all’astronomia e all’astronautica.
Questa spinta motivazionale ha aiutato le altre scienze ad evolversi, e a
raggiungere quei risultati tecnologici e di conoscenze con le quali entriamo in
contatto quotidianamente. Pensate alle fotocamere, ai telefonini, ecc.
Credo che le prossime frontiere
della fisica siano legate alla ricerca della comprensione di ciò che chiamiamo materia
ed energia oscura. Soprattutto dopo che abbiamo scoperto che queste componenti
non visibili superano di gran lunga quella visibile. Un altro ambito di
interesse per il futuro sarà l studio della fusione nucleare controllata in
laboratorio. Sono coinvolto in un progetto italo-russo per la costruzione di un
reattore nucleare a fusione. Se funzionasse, si potrebbe avere un sistema
capace di produrre una grande quantità di energia con un rilascio di scorie
radioattive decisamente inferiore rispetto alla fissione.
D. Quali sono le sue attività da divulgatore previste per i prossimi
mesi?
Sto scrivendo due libri. Il primo
è dedicato ai bambini, il titolo non è stato ancora scelto, ma posso anticipare
che darò 100 risposte a 100 domande sull’astrofisica. Il secondo è una raccolta
delle conferenze che ho fatto negli ultimi cinque anni.
A questo bisogna aggiungere le
attività di divulgazione che proponiamo al Planetario e le altre sul
territorio.
Tra i miei prossimi progetti, mi
piacerebbe avviare una serie di eventi con la logica del forum, dove il
pubblico e i protagonisti condividano idee con la formula della cross-cultura,
mettendo la fisica al confronto con altre discipline non solo scientifiche,
anzi soprattutto umanistiche.
D. Qual è la cosa che consiglierebbe ad un giovane che vuole
approcciarsi alla scienza e alla fisica in particolare?
Questa risposta inizia con una
storia tratta da una vignetta: Un professore americano entra in un’aula durante
uno di quegli incontri che si chiamano “open days”, durante i quali gli allievi
possono fare delle domande ai docenti per decidere sulla scelta degli studi
futuri. Dalla platea un ragazzo chiede quale sia la differenza tra l’astronomia
e l’astrologia. Il professore risponde: “Nessuna, ci occupiamo delle stesse cose,
solo che nell’astronomia la si fa con l’utilizzo di molta matematica.” A questa
risposta l’aula si svuota velocemente.
Invece consiglierei di imparare
molto bene la matematica e la fisica. Mi rendo conto che possano a prima vista avere
un potere attrattivo inferiore rispetto ad altre discipline, ma sono il
linguaggio alla base di tutte le scienze e ne danno seguito. Bisogna rendersi
conto che danno le nozioni e il metodo fondamentali per affrontare qualunque
campo scientifico e tecnologico. Bisogna mettersi lì con pazienza all’inizio,
ma i benefici arriveranno senz’altro a tempo debito.
La risposta si conclude con una
frase di Galileo, secondo il quale “Il libro della natura … è scritto in lingua matematica, e i
caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali
mezzi è impossibile a intenderne umanamente la parola”.
D. Concludiamo questa intervista con una sua definizione di
divulgazione?
Divulgazione può essere definita
in molti modi. Mi piace la parola inglese “dissemination”. Non è bella dal
punto di vista letterario e del suono ma rende l’idea: seminare in giro,
dovunque, per aiutare a comprendere e a pensare secondo il metodo scientifico. Il
metodo scientifico è fondamentale perché aiuta a valutare in modo oggettivo i
risultati di osservazioni e di esperimenti, e di proporre interpretazioni
verificabili.
L’intervista si conclude con il rito della fotografia.
Riapriamo la porta dell’ufficio e le “urla festose” non ci sono più. Ci
aggiriamo per il Planetario vuoto e scegliamo il posto dove fare lo scatto. Il
luogo è meno vivace rispetto al mio arrivo, ma domani è un altro giorno, e il
planetario si rianimerà conservando durante la notte le sue meraviglie e i suoi
segreti.
1) http://it.wikipedia.org/wiki/Gleb_Wataghin
2) http://it.wikipedia.org/wiki/Satellite_Gaia