(Credit Photo Copyright Emmanuele Macaluso - TheCosmobserver)
Maurizio
Cheli nasce a
Modena nel 1959 e passa la sua infanzia a Zocca.
Nel 1978 entra all’Accademia Aeronautica
di Pozzuoli dove diventa pilota militare e collaudatore.
Nel 1992 entra all’ESA (European Space Agency)
e viene inviato al Johnson Space Center
della NASA, a Houston in Texas.
Nel 1996, per 15 giorni, 17 ore e 41 minuti, viene
inviato nello spazio a bordo dello Space
Shuttle Columbia con la missione STS-75.
Durante la missione, Maurizio Cheli
diventa il primo “Mission Specialist”
italiano della storia.
Nello stesso anno viene assunto da Alenia Aeronautica e ottiene l’incarico
di Capo Pilota Colaudatore per i
velivoli della difesa e diviene il responsabile dello sviluppo operativo dell’Eurofighter Typhoon.
Nel 2005 fonda CFM
Air, un’azienda che si occupa di progettazione di velivoli leggeri avanzati
e diventa un imprenditore. Nel maggio 2015 pubblica “Tutto in un istante”, edito da Minerva
Edizioni e con le note di Marianne
Merchez, il suo primo libro attraverso il quale racconta la sua epopea
sulla Terra e nello spazio.
È un pomeriggio assolato
all’Aero Club di Torino. Maurizio Cheli arriva al nostro
appuntamento a bordo della sua moto. Tolto il casco mi guarda e ci salutiamo
con un grosso sorriso. L’intervista non avrebbe potuto avvenire in un posto più
consono alla passione che ha portato Maurizio oltre l’atmosfera terrestre: il
volo.
Maurizio non è l’astronauta
che ti aspetti. Ha ovviamente un approccio serio alle cose, e quindi anche alla
nostra intervista, ma ha un modo genuino, vitale e contemporaneamente semplice
e pragmatico di porsi nei confronti del suo interlocutore. Mi trovo di fronte
ad un uomo che è anche simpatico, e non è “rinchiuso” nel ruolo dell’astronauta
rigido e marziale, nonostante la lunga carriera militare. Tempo di ordinare un
caffè da assaporare mentre i velivoli continuano a decollare e a muoversi sulla
pista di atterraggio vicino al nostro tavolo e l’intervista ha inizio.
D. Quando avevi 10 anni, nel 1969, è avvenuto lo sbarco sulla Luna
dell’Apollo 11. Mi racconti come hai vissuto quel momento e quanto ti ha
influenzato?
R. Nonostante la giovane
età me lo ricordo benissimo. Non avevamo la televisione in casa e siamo andati
a vederlo nel bar del paese, che era l’unico bar che aveva la TV. I miei
genitori mi hanno dato il permesso di rimanere sveglio fino a tardi vista
l’eccezionalità del momento. E io ricordo che guardavo questi uomini sulla Luna,
sembrava una di quelle cose che potevano succedere solo nei film. Ricordo che
uscivo dal bar e guardavo la Luna, pensando che in quel momento lì sopra
c’erano delle persone. E quel ricordo non mi ha mai abbandonato. Anche adesso,
quando guardo il nostro satellite naturale, non mi sembra possibile che
qualcuno abbia potuto arrivare fin lì. È una cosa ancora così stimolante dal
punto di vista tecnologico.
Quando sono arrivato alla
Nasa, ho avuto la fortuna di conoscere John
Young (1), che ha avuto la possibilità di viaggiare verso la Luna con il
progetto Apollo e gli ho fatto molte
domande.
Intanto si deve pensare che
gli astronauti dell’Apollo avevano
un’operatività che durava una settimana, credo che ancora oggi, non esista
nulla di così complesso e tecnico come il viaggio sulla Luna.
D. Parliamo del lungo addestramento alla NASA. Qual è la cosa che ti
piaceva fare diù e quella che non avresti mai voluto fare durante quei mesi?
R. Quelle che mi piacevano
fare di più erano quelle più operative. Mi piaceva fare l’addestramento
integrato, quelle che si facevano con i tre membri dell’equipaggio, quindi
pilota, comandante e MS2 (MS2 – Mission Specialist 2 era Cheli ndr).
In quegli addestramenti hai
il contatto diretto con i controlli di volo, dalle emergenze alle sequenze. Una
vera e propria sfida con te stesso, perché spesso durante le simulazioni
venivano immesse delle emergenze complesse e bisognava risolverle. Era
un’insieme tra conoscenza del sistema e l’interpretazione dei sintomi del
problema, della diagnosi e della capacità di porre rimedio in tempi brevissimi.
Un’altra cosa che mi
piaceva provare era il “braccio robotico”, perché era qualcosa che si
avvicinava molto al pilotaggio. Anche in quel caso si simulavano
malfunzionamenti e molto spesso si passava da un sistema di controllo con il joystick
ad un sistema che andava a lavorare sul singolo giunto del braccio robotico.
Decisamente più complesso.
Oltre questo mi piaceva la
parte di addestramento extraveicolare (EVA),
che era obbligatoria per tutti.
La cosa che mi piaceva
meno, era quella che si faceva davanti al computer e che serviva ad entrare in
contatto con le varie emergenze. Era la parte più noiosa anche se aveva la sua
importanza perché è quella di apprendimento e della didattica. Preferivo
sicuramamente la parte più operativa.
D. Cosa hai provato la prima volta che hai visto uno Space Shuttle?
R. È impressionante! Era
molto più grande di quanto immaginassi. Credevo fosse più piccolo. Vederlo
rivolto verso l’alto è incredibile. E poi, è “la macchina che ti porta nello
spazio”. È stato davvero emozionante.
D. C’è una cosa che hai scritto nel libro e che mi ha aiutato a
fotografare una cosa alla quale non avevo mai pensato. Un viaggio nello spazio,
in orbita attorno alla Terra, avviene in un ambiente estremo, ma di fatto equivale
a 3 ore di auto in termini di distanza.
R. La maggior parte delle
persone non se ne rende conto. Soprattutto quelle della mia generazione o di
quelle precedenti. Si pensa che quando sei nello spazio vedi la Terra come se fosse una “pallina blu”,
come nelle foto del progetto Apollo.
Come se vedessi la Terra dalla Luna.
La verità è che loro
andavano a 380.000 km dalla Terra, noi giravamo attorno al pianeta a “soli” 380
km di distanza. Vedi la curvatura della Terra, e il pianeta non rientra
completamente nel tuo campo visivo. Dire che la distanza è quella di tre ore di
macchina aiuta la gente a mettere meglio a fuoco la distanza alla quale ruoti
attorno alle loro teste.
D. Da astrofilo, non nascondo un po’ di invidia perchè hai visto lo
spazio e le stelle senza il filtro dell’atmosfera. Descrivimi quello che hai
visto.
R. È stato incredibile. Le
stelle sono molto più brillanti e sono molte di più quelle che si riescono a
vedere dalla Terra, soprattutto quando con lo shuttle sei nella parte notturna
dell’orbita attorno al pianeta. Capitava che quando entravamo nella parte
notturna dell’orbita, per goderci lo spettacolo delle stelle abbassassimo le
luci all’interno del Columbia per
guardare fuori. Anche la Luna e il Sole sono molto più brillanti.
D. Qual è stato il momento “icona” della tua epopea nello spazio?
R. Ne ho due. Sono due
momenti con emozioni diverse.
Il primo, quando sono
arrivato in orbita, dovevo aprire il portellone dello Shuttle. L’operazione
avveniva lentamente e io la guardavo attraverso due finestrini. Nonostante
avessi già visto la Terra dai finestrini anteriori, vedere il mio pianeta sullo
sfondo di questi pannelli che si aprivano lentamente e me la mostravano come se
fosse un sipario, è stata un’emozione fortissima. Avevo nel mio campo visivo il
Columbia e la Terra.
È come se mi fossi reso
conto che “lo stavo facendo” davvero.
Il secondo, al rientro
nell’atmosfera. Quando eravamo all’interno di una palla di fuoco. Ero preparato
a tante cose, ma prepararsi a quello è impossibile. Per 10 minuti sei avvolto
dalle fiamme. Sei in una galleria del vento, solo che il pezzo da testare sei
tu. Vedi tutto da dentro e non da fuori. È impressionante.
Poi, non è una cosa
statica, ma dinamica. Per intenderci, non vedi semplicemente rosso, ma vedi le
fiamme che ti avvolgono e si muovono seguendo il campo aerodinamico dello
shuttle.
D. Alla base di tutto quello che hai vissuto c’è la passione per il
volo. Non importa in quale direzione! Ma c’è anche un’altra cosa, che è la
volontà del cambiamento. Adesso sei un imprenditore e ti occupi sempre di volo
e aeroplani.
R. La mia avventura da
imprenditore arriva dopo la mia esperienza di collaudatore. È successo che un
giorno sono arrivato in un piccolo campo volo, con una pista in erba da 300
metri. All’interno del campo c’erano dei velivoli molto semplici. Quello che mi
ha colpito era la passione delle persone. Sembrava di rivivere l’epopea degli
anni ’30 in America dove la passione la faceva ancora da padrone. In quel posto
c’erano persone che si trovavano lì per il solo gusto di volare. Nessuna
necessità professionale o altro.
Ho iniziato a volare con
questi piccoli velivoli e ho riassaporato un grande senso di libertà. Una
sensazione molto diversa rispetto ai caccia performanti e alla grande
professionalità richiesta nelle aziende per le quali avevo operato.
Un giorno, insieme ad un
mio amico abbiamo deciso di portare le nostre esperienze aeronautiche in questo
campo in modo da dare il nostro contributo. È iniziato tutto così.
D. Il tuo lavoro ti ha portato a girare il mondo e in situazioni decisamente
diverse. Come gestisci le relazioni?
R. È un problema, perché
non sei mai radicato al luogo nel quale ti trovi. Nel corso degli anni però, mi
sono reso conto che molto dipende molto dalla tecnologia di cui disponi. Ad
esempio quando ero in accademia per telefonare avevo i sacchetti con i gettoni.
2 soli telefoni e una fila di altri che come te volevano chiamare casa o la
fidanzata. Ora hai uno smartphone e questo rende tutto più semplice. E in più adesso
è anche più facile viaggiare.
Ma al di là di questo,
delle tecnologie e dei canali, ci vuole sempre la frequentazione e appena
possibile rivedo i miei amici. Torno magari a Zocca, dove ho una casetta. Avevo
bisogno di sapere che c’è un posto che è la mia “casa”, dove tengo le cose a
cui tengo di più.
D. Il primo febbraio del 2003, il “tuo” Shuttle, il Columbia, si è
disintegrato al suo ritorno sulla Terra. Quali sono state le tue sensazioni
davanti a quelle drammatiche immagini?
R. È stata una sensazione
molto forte. La propria navetta è come la “prima macchina” per un astronauta,
non puoi non essere in qualche modo “attaccato” a quel mezzo. È la tua navetta,
la senti tua.
Tra l’altro la zona dove è
successo l’incidente io la ricordo molto bene. È in assoluto il posto dove ho
provato e percepito la velocità in modo più forte in tutta la mia vita.
Nonostante abbia volato con velivoli molto performanti, lì è stata superata
qualsiasi soglia avessi mai varcato prima. In quel punto la velocità è di circa
19/20 volte quella del suono e sei solo a circa 75 km dal suolo. La sensazione
della velocità è enorme perché è una combinazione tra velocità e quota. Lì è
fortissima perché al rientro sei già abbastanza vicino al suolo da percepire
quella velocità enorme. In più quello è il posto dove il calore arriva alla punta
massima.
Quando ho visto le immagini
del Columbia sono rimasto con la bocca aperta. Un’astronauta sa che il lavoro
che andrà a fare ha molti rischi. È una sensazione che hai “dietro il cervello”
e ti accompagna, ma vederlo davanti agli occhi, guardarlo accadere e rendersene
conto è una sensazione fortissima e triste. Non solo per la navetta, ma anche
per le persone a bordo che, al di là delle divergenze personali, erano lì sopra
con la tua stessa passione.
D. Di solito le interviste finiscono con una domanda sull’importanza
della divulgazione. Tu hai una grande capacità di divulgare, di semplificare i
tuoi racconti e di renderli fruibili a tutti. È una cosa innata o ha fatto
parte del tuo addestramento?
R. No, non mi sono addestrato per questo. Fa parte
dell’esperienza e del confronto con la gente. Cerco di fare dei parallelismi
che portino tutti a comprendere quello che ho vissuto, attraverso esempi della
quotidianità, mettendo chi mi ascolta nella possibilità di segurmi nel
racconto.
L’intervista si conclude e
inizia una lunga chiaccherata fatta di passioni comuni e curiosità. È possibile
seguire Maurizio Cheli nelle sue attività e nei suoi incontri attraverso il suo
sito web www.mauriziocheli.com o
lagina facebook del suo libro all’indirizzo https://www.facebook.com/tuttoinunistantelibro
E. Macaluso
(1) John Watts Young è
un ex astronauta statunitense. Young è stato il nono uomo a porre il suo piede
sulla Luna e l'unico americano che volò con le navicelle spaziali Gemini ed
Apollo come pure con lo Space Shuttle.
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